Tina Balì all’assemblea di lancio dei referendum: Con 5 sì miglioriamo le condizioni materiali dei lavoratori

La seconda giornata dell’Assemblea delle assemblee generali della Cgil a Bologna è stata il momento delle testimonianze: cinque compagne, cinque storie di lavoro, come cinque sono i quesiti referendari. Poi gli interventi, tra cui quello della segretaria nazionale Flai Cgil. Infine la chiusura affidata a Landini: «C’è bisogno del lavoro straordinario di ognuno di noi»

C’è un concetto, perfettamente cristallizzato in una frase che scuote menti e coscienze, e sintetizza il senso della battaglia: «Da troppo tempo siamo in astinenza da giustizia sociale». La pronuncia il presidente dell’Arci Walter Massa, nel cuore della seconda giornata dell’assemblea delle assemblee generali della Cgil. L’astinenza dovrà interrompersi a giugno, quando presumibilmente il governo – sempre al suo buon cuore – fisserà la data dell’appuntamento referendario. Cinque sì per cambiare il Paese, ma innanzitutto un modello sociale che in questi anni, progressivamente ma inesorabilmente, si è ripiegato su se stesso, schiacciato dal macigno della precarietà, lavorativa ed esistenziale.

IL DIRITTO NEL LAVORO
«Riprendiamoci quello che è nostro, innanzitutto la dignità», si grida dal palco del PalaDozza, gremito anche per questa seconda giornata di lavori, prima tappa della grande marcia verso i referendum promossi e abbracciati dalla Cgil. Non c’è dignità, in effetti, nelle condizioni di lavoro dei cosiddetti “lavoratori somministrati”, rinnovati dalla pubblica amministrazione di settimane in settimane, tra un’emergenza e l’altra, e giustamente la compagna Erika Iannuzzo, delegata Nidil, racconta il paradosso di una precarietà che lo Stato ha reso strutturale, ma anche l’orgoglio di «poter annunciare, dopo anni di battaglie, il primo concorso pubblico per assistenti amministrativi, alla fine del 2026».

È il giorno delle testimonianze, delle categorie, delle delegate e dei delegati, delle associazioni a vario titolo mobilitate, da Amnesty a Greenpeace, da Sbilanciamoci ad Anpi. «Il nostro deve diventare un antifascismo militante e quotidiano – dice scaldando la platea la vicepresidente Anna Cocchi -, non è questo il mondo per cui le nostre partigiane e i nostri partigiani si sono battuti e hanno perso la vita. Progettavano un posto migliore, libero e democratico, ma per tutti. Non la libertà di fare quello che si vuole in spregio alle regole. Oggi – arringa -, ci battiamo per il diritto al lavoro, ma anche nel lavoro, tanto è diventato precario, malpagato e insicuro. Chi vince le elezioni ha il diritto di governare – ricorda -, non comandare. Per un antifascismo abbiamo bisogno di tutte e tutti, ma è tutto scritto, nella nostra Costituzione c’è posto per tutti, tranne che per i fascisti».

CINQUE SÌ
Cinque quesiti, cinque compagne, cinque storie di lavoro (e soprusi, battaglie, vittorie). La tavola rotonda di metà mattinata porta dentro il PalaDozza i racconti di chi ha sperimentato, sulla sua pelle e quella di lavoratori e lavoratrici che rappresenta, quanto sia importante andare a votare per ripristinare lavoro, sicurezza, dignità, democrazia e cittadinanza. Roberta Zacchiroli, delegata della Fiom di Bologna, descrive la disparità tra chi, in un’azienda con meno di quindici dipendenti, è stato assunto prima del 2015 e chi dopo l’introduzione del Jobs Act. Paola Guadagno, delegata Filcams di Napoli, «i 135 giorni di presidio ininterrotto per difendere il posto di lavoro, respingere imprenditori pirati e ottenere un contratto». Arianna Taraglio, delegata della Filt, descrive l’incubo dei lavoratori Amazon, «un provvedimento disciplinare dietro l’altro, l’esasperazione e, per molti, il licenziamento volontario». Stefania Nepoti, della Fillea di Bologna, invoca «le responsabilità dell’impresa appaltante nei casi di incidenti sul lavoro, andare a votare è fondamentale».

Già, noi della Flai lo sappiamo bene, ci sentiamo mobilitati anche per convincere gli italiani a votare il referendum sulla cittadinanza, e il perché lo spiega benissimo Pashmeen Kaur, funzionaria di Pordenone, già premiata lo scorso anno per il suo impegno nella lotta contro lo sfruttamento e il caporalato «nel ricco nordest – ricorda lei -, dove prevale il lavoro grigio, quello in cui la paga è solo in parte quella prevista dal contratto, perché il resto è in nero e così il lavoratore non raggiunge mai il reddito minino previsto dai requisiti richiesti per la concessione della cittadinanza italiana». Un quadro inquietante, descrive la compagna Kaur, in cui «i lavoratori sono costretti a pagare al caporale un pizzo per tutto, ma il problema vero sono i titolari dell’azienda, i loro consulenti, che tengono in vita i caporali e se ne servono». Fino a quando non si trova il coraggio di denunciare questo sistema, e a Pordenone è accaduto, con il sostegno della Flai e della Cgil, che «cinquanta ragazzi si sono fidati di noi e hanno denunciato i loro caporali, riuscendo poi a ottenere il permesso di soggiorno».

UN LAVORO CHE RESTI
Tina Balì, la nostra segretaria nazionale, passa in rassegna le battaglie che la confederazione e la categoria hanno condotto in questi anni, un lavoro di «resistenza e conquiste – ricorda – con cui abbiamo dimostrato di non volerci rassegnare all’idea che neoliberismo e ricchezza per pochi abbiano tracciato un percorso da cui non si può tornare indietro». E, dunque, la Flai c’è «a Pordenone accanto ai braccianti che denunciano il loro caporale e ottengono il permesso di soggiorno, e a Latina dove il nostro segretario generale Giovanni Mininni si è costituito parte civile insieme al compagno Landini nel processo per l’omicidio di Satnam Singh; e c’è nei rinnovi dei contratti provinciali dove abbiamo inserito anche maggiori tutele rispetto al passato».

Ma il punto è che tutto questo non è più sufficiente. «Oggi dobbiamo condurre una battaglia vera sull’egemonia culturale, rimettere il lavoro al centro delle nostre lotte, e i referendum sono un’occasione irrinunciabile, perché parlano direttamente alle persone in carne e ossa, affrontano le condizioni materiali di lavoratrici e lavoratori: noi gli stiamo dicendo che con il voto quelle condizioni possono cambiare immediatamente. Non sarà facile, sappiamo che in questo Paese ormai non votano diciotto milioni di persone, ma con una strategia unita potremo farcela, e alla fine questo lavoro resterà e ci consegnerà una nuova organizzazione, che ha saputo guardarsi dentro».

Chiusura e lancio ufficiale della campagna, ovviamente affidata al segretario generale della Cgil Maurizio Landini: «Noi non stiamo resistendo al cambiamento, né conducendo solo una lotta di difesa, noi stiamo proponendo al Paese una discussione per cambiarlo e dargli un futuro. Abbiamo l’ambizione di ricreare un mondo fondato su libertà, solidarietà e giustizia sociale, anche per raggiungere l’obiettivo del quorum. L’importante non è partecipare, come alle Olimpiadi, ma portare a casa il risultato, cambiare la vita e il lavoro di milioni di persone. Probabilmente – ammette Landini -, è la cosa più difficile che abbiamo mai affrontato, ma penso che ci siano i presupposti per vincere questa battaglia. Oggi la libertà è in pericolo, oggi l’idea è che la libertà sia quella di poter comprare tutto, anche la dignità delle persone. Una persona non è libera se è precaria, se non arriva alla fine del lavoro, se muore sul lavoro, cittadino anche nel posto di lavoro, non un suddito sfruttato. Noi non ci stiamo difendendo, stiamo mettendo in campo un’azione che provi a riconquistare una cultura in cui la libertà sia fondata sulla solidarietà. E questa è la condizione per uscire dalla paura della solitudine. Cosa mettiamo al centro? Il profitto o la persona? – si chiede il segretario generale – Sono due mondi alternativi».

RIVOLTA SOCIALE
Il pericolo è dietro l’angolo. «Sta rischiando di passare il concetto che la democrazia non sia in grado di combattere le disuguaglianze. Si riducono gli spazi di confronto democratico, aumentano quelli della polemica e della propaganda, è chiaro che in questo momento dire che il voto è la nostra rivolta sociale significa andare controcorrente e cambiare radicalmente cultura e modello sociale che si sono affermati in questi anni. Faccio un invito al governo e a tutte le forze politiche: chi oggi eventualmente pensa di indicare di non andare al voto, vuol dire uccidere la democrazia. E noi non diciamo che tutti debbano votare come noi, ma in un Paese democratico tutti devono andare a votare».

È proprio qui il senso della rivolta sociale. «Dire di no, come scrisse Camus, è il presupposto fondamentale per dire di sì, dunque per esistere. Ecco dove nasce l’esigenza di una rivolta sociale. Noi ci rivoltiamo contro una cultura che pensa che la persona sia una merce. Perché ci battiamo tanto per il diritto al reintegro? Perché in questo modo restituiamo al lavoratore innanzitutto la sua dignità, che il Jobs Act ha cancellato».

SOLIDARIETÀ
Alla base di tutto, deve esserci il recupero della solidarietà. «Come non sempre abbiamo fatto in passato – riconosce Landini -. Teniamo unita tra tutti i lavoratori questa solidarietà. Noi restiamo un soggetto sindacale e politico che ha l’obiettivo di migliorare la vita delle persone, non vogliamo diventare un partito politico, ma non ci interessa quello che dicono di noi certi soggetti, ci interessa come veniamo percepiti dai lavoratori, per questo dobbiamo parlare tutti i giorni alle persone, anche nei comitati di condominio. Il problema vero per noi è quando i lavoratori ci considerano una cosa diversa, su questo dobbiamo lavorare, ecco perché il nostro rapporto con le persone è centrale». Insomma, «abbiamo la necessità di usare questa campagna referendaria con l’ambizione di costruire una cultura della libertà che si fondi sulla dignità delle persone. Per questo, c’è bisogno del lavoro straordinario di ognuno di noi, voi». Al lavoro, alla lotta, alle urne.

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