Il cibo è un bene comune, non una merce qualsiasi

di Tina Balì

La scelta di dedicare un numero della nostra rivista AE al “cibo” non è legata solo al ruolo della Fondazione Metes, che si occupa appunto di studio, ricerca, formazione per l’industria agroalimentare, risponde anche alla nostra esigenza di offrire non soltanto elaborazioni e letture del presente ma anche uno sguardo di più ampio respiro sulle dinamiche evolutive in atto e le prospettive del settore.

Il “cibo” è sempre più centrale nelle nostre vite. Da un punto di vista sociale e anche comunicativo, basti pensare a quanti programmi o format televisivi hanno come protagonista il cibo nella quotidianità, nella preparazione del pasto, sfruttato per momenti di convivialità, o ancora per le ricadute sulla salute, soprattutto se è cibo scadente o artefatto. Siamo quello che mangiamo, come avrebbe osservato Ludwig Feuerbach, partendo dal presupposto che mangiare meglio fa pensare meglio.

Il “cibo” è naturalmente anche fonte di grandi disuguaglianze. Non solo perché molti non possono permettersi una cena su una terrazza del Golfo di Napoli, oppure di mangiare carne tutti i giorni, ma soprattutto perché i numeri del consumo di cibo segnalano che a non aver accesso a un pasto minimo sono in tantissimi. Secondo le ultime stime della FAO la prevalenza della sottoalimentazione (PoU), la quota della popolazione mondiale che soffre la fame, nel 2023 è stata del 9,1%, in crescita dell’1,6% rispetto al 2019. In particolare, nel 2023 tra 713,3 e 757,2 milioni di persone (in media 733,4 milioni) hanno sofferto la fame, 152,1 milioni in più rispetto al 2019, periodo pre-pandemia. In soli 6 anni, dal 2018 al 2023, sono aumentate di 176,4 milioni le persone che soffrono la fame.

I numeri dello spreco alimentare mettono in evidenza un folle contrasto fra chi muore di fame e chi invece butta via il cibo. I dati sulla Nota dell’Ufficio studi della Fondazione Metes del 25 luglio scorso parlano chiaro: “A livello mondiale secondo le stime del Food Waste Index Report dell’UN Environment Programme nel 2022 sono stati sprecati complessivamente 1,052 miliardi di tonnellate di cibo, pari a 132 chilogrammi pro capite. Sprechi che avvengono in prevalenza in famiglia (60% del totale), seguono quelli della ristorazione (28%) e delle vendite al dettaglio (12%)”. Mettendo a confronto questi i dati con quelli della produzione alimentare, si osserva che quasi il 19% del cibo a livello mondiale viene smaltito come rifiuto, prevalentemente nelle fasi successive della vendita al dettaglio, della ristorazione e del consumo delle famiglie.

Inoltre, approvvigionamento e prezzo del cibo sono sempre più slegati dalle dinamiche produttive e sempre più dipendenti da quelle finanziarie, pesantemente condizionati dalla geopolitica. Per fare un esempio, basti pensare all’esportazione di grano, bloccata all’inizio del conflitto fra Russia e Ucraina, che ha avuto ripercussioni non solo in Europa ma anche e soprattutto in Africa. Oppure alla crisi energetica, oppure alle limitazioni logistiche dovute alla guerra che stanno riducendo la disponibilità di alcuni prodotti sui mercati. 

Il sistema cibo, come sostiene Tim Lang, professore di politiche alimentari della City University di Londra, “non si può analizzare senza usare un approccio complesso e olistico”. Impossibile quindi parlare di cibo se non si affronta il tema di cambiamenti climatici sempre più devastanti, con la conseguente perdita di biodiversità, o senza considerare il nesso con lo sviluppo di un paese e del suo territorio, le ricadute sulle condizioni materiali delle persone, la loro possibilità di una vita sana. In aggiunta, lo ripetiamo, le tensioni tra Stati Uniti, Cina, India, Russia e Europa influenzano pesantemente il sistema alimentare.

Poi c’è chi il cibo lo produce, braccia e menti. Milioni di donne e di uomini che lavorano ogni giorno, a qualsiasi latitudine, per fare arrivare le pietanze sulle nostre tavole. Lavoratrici e lavoratori poveri, spesso sfruttati, mal pagati, precari, vittime di caporali senza scrupoli, mentre i profitti dell’industria alimentare sono a sei, sette  zeri.

I dati del VI Rapporto agromafie e caporalato evidenziano come nel 2021 fossero circa 230mila i lavoratori irregolari del settore primario (oltre un quarto del totale degli occupati), “concentrati nel lavoro dipendente, che include una fetta consistente degli stranieri non residenti impiegati in agricoltura”. Mentre si stima che siano circa 55.000 le donne che lavorano in condizioni di irregolarità, costrette a subire un triplice sfruttamento: lavorativo, nel totale disprezzo di ogni norma igienica e di sicurezza; retributivo, sono pagate meno degli uomini; non di rado anche sessuale e fisico.

Il cibo non può essere considerato una commodity al pari delle altre, utilizzata dai grandi capitalisti dell’agroalimentare per fare sempre maggiori profitti, a discapito dell’ambiente, sulla pelle dei lavoratori e a discapito delle risorse naturali. Un nuovo paradigma alimentare deve essere basato sulla multivalorialità culturale, sociale e relazionale dell’alimentazione. Solo considerando il cibo come un bene comune sarà possibile costruite un nuovo modello agroalimentare più giusto e responsabile, in grado di contribuire al futuro dell’umanità sul nostro pianeta.

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