Il fallimento internazionale del governo Meloni

Le ultime elezioni europee ci permettono un’infinità possibilità di interpretazioni sull’esito del voto. Molte analisi, soprattutto di intenzione sociologica, sono state promosse dai vari istituti di statistica politica che con sondaggi e verifiche ex post ci hanno spiegato come esistano due polarizzazioni principali, quelle reddituali e quelle geografiche, che spesso coincidono.

L’analisi principale sull’intenzione, sull’indirizzo generale, è che le aree geografiche con vocazioni economiche più fragili abbiano una tendenza al voto di “destra”, e una forte predisposizione ad abbracciare ipotesi xenofobe e razziste. Nulla di nuovo insomma. Così come non è nuova la fotografia politica che ci concede il voto di giugno: i partiti di ispirazione sociale e progressista che negli ultimi anni hanno preferito confrontarsi sui temi dei popolari e della destra europea, anziché provare ad imporre una propria agenda, hanno perso consenso. Con buona pace di chi pensava di poter parlare di guerra in modo etico e sostenibile o utilizzare altri ossimori politici per giustificare una rincorsa al rapido consenso elettorale invece della lenta costruzione del consenso politico.

È paradossale però che lo stesso succeda anche alla destra autentica, quella italiana, da sempre più realista del re, che d’un tratto si scopre fragile e isolata nel meccanismo di consenso europeo che da sempre ha permesso ai partiti di governo nazionale di tenere i piedi in due scarpe. Il sistema delle Commissioni, infatti, permetterebbe di agire in una doppia chiave politica, da una parte sostenere il Presidente, in questo caso la Von der Leyen e avere un Commissario nella squadra di governo e dall’altra quella di avere gruppi parlamentari autonomi che possono agire senza particolari vincoli. Meloni ha scelto invece di stare all’opposizione, riproponendo uno schema già visto in Italia negli anni, nella speranza di proporre la propria coerenza in chiave elettorale nei prossimi anni. Ma in chiave europea o in chiave locale? Perché pensare di poter stare cinque anni all’opposizione del governo europeo senza poter influire sui processi, scommettendo sul fallimento dell’Ue per poi ostentare la propria ragione, in un’epoca in cui il consenso liberista è volatile e ha costante bisogno di verifiche pratiche e pragmatiche è realmente fattibile?

La prossima Commissione europea si sta già caratterizzando per la definizione di un nuovo modello di austerity e alcune riforme sul modello economico, di welfare e di giurisprudenza del lavoro. Da questo punto di vista ha senso stare alla larga dal rischio di essere corresponsabili dell’ennesimo attacco sociale e al mondo del lavoro, ma allora perché continuare a proporre una politica di promesse che non potranno essere mantenute? Non è pensabile scaricare tutte le responsabilità, dalle scelte che trapelano sulla prossima finanziaria all’Autonomia differenziata, sull’Europa. Anzi.

Che si tratti di un errore di valutazione del governo Meloni lo si potrebbe supporre anche dalle dichiarazioni dell’alfiere Crosetto, indignato e indisposto dall’esclusione del nostro Paese dal ruolo di coordinamento della Nato nel Mediterraneo. Di fatto si potrebbe dire che non è la Meloni che si sta isolando in chiave strategica, ma che ci stanno isolando. Non fosse altro che il ruolo di coordinamento delle operazioni Nato nel Mediterraneo è stato creato ad hoc pochi mesi fa proprio su richiesta del governo Meloni.

Sorge allora il dubbio che l’esplicito riferimento alla “Sovranità alimentare” del dicastero agricolo non fosse altro che lo sciagurato presagio di un’autarchia politica senza tattica né prospettiva. Sorge il dubbio che non ci sia alcuna complessa strategia e che le boutade pubbliche di premier e ministri non abbiano un secondo fine se non il situazionismo populista di chi cerca di dare risposte semplici a problemi complessi, compresi una serie di impegni che il governo ha preso negli ultimi mesi sulla riscrittura della Pac: chi si farà garante di quelle istanze?

L’Italia meloniana avrebbe voluto ritagliarsi un ruolo di rilievo in chiave atlantista e interventista, si scopre invece isolata e criticata dall’intero continente europeo che, ancora una volta, si dimostra essere l’unica alternativa possibile ad una globalizzazione in continua evoluzione. 

Andrea Coinu

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