La fatica non riconosciuta dei “controllori” degli allevamenti

Si chiamano Tecnici di gestione aziendale e si occupano ogni giorno di fare analisi nelle aziende zootecniche, a tutela della qualità dei prodotti e della salute pubblica. Operano in condizioni precarie, ma il governo ancora non vuole considerare il loro un lavoro usurante 

di Leonardo Filippi

Centinaia di piegamenti sulle gambe ogni giorno, per prelevare il latte dai bovini. Orari discontinui, con sveglie alle 3 di mattina e fine turno anche oltre la mezzanotte. Lavoro in condizioni ambientali estreme con punte che vanno dai -10 gradi di inverno, fino a 40 gradi e più d’estate, con un’umidità che può avvicinarsi al 100%. Condizioni igieniche altrettanto precarie. Rumori meccanici incessanti, tipici delle sale mungitura. Sono la quotidianità lavorativa dei cosiddetti Tecnici di gestione aziendale, i Tga. Una volta erano detti “controllori zootecnici”. Operano per conto delle realtà territoriali associate all’Aia, l’Associazione italiana allevatori, che ha il compito di contribuire al miglioramento del benessere del bestiame allevato e ad una più efficiente valorizzazione dei prodotti derivati. 

I Tga, con i loro controlli costanti e puntuali dei dati produttivi e riproduttivi per la filiera della carne e del latte, assicurano un servizio di analisi completo agli allevatori associati, ad un costo più contenuto rispetto al mercato. Sono dunque un pilastro importante del sistema degli allevamenti, a garanzia della qualità di ciò che finisce sulle nostre tavole e della salute pubblica. Ma, come dicevamo, il loro lavoro è tutto meno che una passeggiata. 

«Un altro dei nostri problemi, per fare un esempio, è che siamo sempre a contatto con animali di grossa taglia – racconta Marco Magnaldo, tecnico di gestione aziendale che opera nel Cuneese -. Per trovare la loro matricola o anche solo per attraversare la stalla dobbiamo percorrere spesso corridoi stretti, cercando di non prenderci nessuna cornata o testata. Oppure qualche calcione. Io ne ho presi due, che per fortuna mi hanno provocato solo qualche ematoma, ma poteva anche andare peggio». 

Lavorare per il benessere degli animali, difendendo valore e qualità dell’alimentare italiano, è motivo di orgoglio per tanti di questi operatori. Ma il loro senso di dignità è spesso inversamente proporzionale alla valorizzazione del loro lavoro e alle loro tutele. 

«Per oltre dieci anni questi lavoratori e lavoratrici hanno subito il blocco della contrattazione, a causa di gravi problemi strutturali – ci dice Silvia Spera, segretaria nazionale Flai -. Questo ha comportato una seria perdita di acquisto dei loro salari». Il sindacato ha dunque messo in campo un impegno importante, per recuperare il terreno smarrito. «Il prossimo dicembre scadrà il biennio economico del Contratto collettivo nazionale Allevatori, sottoscritto il 14 novembre 2023 – aggiunge Spera -. Nel primo biennio abbiamo ottenuto un aumento salariale del 5,5%, pari a 93,67 euro sul parametro medio 2/3. In questo rinnovo biennale, invece, abbiamo presentato una richiesta salariale del 7%, nell’ottica di riconoscere l’incremento dell’indice dei prezzi al consumo del biennio 2025/26 e recuperare l’inflazione persa nel biennio precedente». 

Nel frattempo, la Flai insieme ai sindacati confederali, a Confederdia (sigla che organizza impiegati e dirigenti dell’agricoltura, ndr) e all’Associazione italiana allevatori si sono rivolti direttamente al ministero del Lavoro Marina Calderone e a quello dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida affinché una mansione così gravosa sia finalmente riconosciuta come “lavoro usurante”. 

«Questi lavoratori fanno un lavoro indispensabile e assai faticoso, non riconosciuto da nessuno – puntualizza la segretaria nazionale Flai -. Per questa ragione abbiamo concordato un avviso comune per il riconoscimento del lavoro usurante compiuto dai dipendenti delle Associazioni allevatori che operano in qualità di Tecnici di gestione aziendale, per avviare un percorso di riconoscimento che porti alla possibilità di anticipare l’andata in pensione». 

A sette mesi dall’invio della richiesta, però, dai ministeri ancora silenzio. Ancora non è arrivata una risposta. E per molti lavoratori questo ritardo comporta l’esposizione quotidiana a rischi non necessari.

«Abbiamo lavoratori di 65 anni che non possono ancora andare in pensione, sono stanchi, hanno dolori articolari legati al proprio impiego talvolta di oltre quarant’anni. Ogni giorno devono fare turni ad orari diversi, il giorno e la notte. Una distrazione su una macchina della mungitura, o nel tragitto in auto verso l’allevamento, può essere davvero pericolosa per loro», spiega Paolo Tosciri, che lavora all’Associazione allevatori della Sardegna. 

«Ormai ho 64 anni, e faccio una fatica immane la notte ad alzarmi – ci racconta Mirco Paderni, Tga che lavora in Lombardia -. Capita tante volte che sto guidando di notte, arrivo ad una rotonda, e mi scordo dove stessi andando. E tutto ciò nonostante cerchi di riposarmi il più possibile, anche perché questo lavoro non ti permette di avere una grande vita sociale». 

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