L’interminabile agonia di un modello economico che ha fallito

di Andrea Coinu

Il paradosso del nostro tempo è che la necessità di un cambiamento radicale del paradigma economico-sociale sia condivisa superpartes, da chiunque venga interpellato al riguardo. Nessun attore politico, sindacale o economico, si esprimerebbe pubblicamente per difendere qualsivoglia aspetto dell’attuale modello. La crisi sistemica è tale che la critica è diventata la normalità, mentre i pochi elogi sono ormai visti come forzati. Quei “non è tutto da buttare” o “esistono anche buoni esempi”, fa il paio con un’ambizione esterofila solo italiana e distorta, come se un modello fondato sulle diseguaglianze potesse creare disparità solo nel nostro paese, mentre “all’estero funziona tutto meglio”. 

Invece il nuovo codice deontologico del modello, il Rapporto di Mario Draghi, commissionato dalla Presidenza della Commissione e intitolato “Piano sulla Competitività”, ci dice sostanzialmente che non esiste un posto in cui si è al sicuro e anche i più alti rappresentanti della politica socio-economica europea non sono soddisfatti di come funziona l’Unione.

Il piano ha il compito di definire il nuovo mantra ideologico del secondo mandato della Von der Leyen. Non c’è spazio per il vecchio e obsoleto green deal, nessuna sostenibilità né futuro green. C’è solo la competitività come rimedio allo strapotere cino-americano e argine al nuovo che avanza. 

Nel manuale Draghi esistono alcuni riferimenti espliciti alla fallibilità del modello, denuncia ad esempio l’utilità di diminuire i centri di spesa nell’ottica di garantire un maggior risparmio (ironico succeda mentre in Italia con l’autonomia differenziata si sfilaccia tutto invece di unire).

Dunque la guida strategica del nostro continente non è indirizzata dalla logica del bene comune, della pace, del benessere diffuso ma da quella del “cerchiamo di spendere meno e meglio”. L’impostazione sarebbe già di per sé discutibile ma diventa inquietante quando nello svilupparsi propone sostanzialmente di non preventivare alcun nuovo elemento di welfare sociale.

Draghi sostanzialmente dice che il modello europeo ha il miglior welfare al mondo, che però non si riesce ad esportarlo per cui arrendiamoci all’ineluttabile evoluzione del capitalismo, tagliamo le spese e aggrediamo il lavoro per diventare più competitivi.

Come se non esistessero altri metodi. Come se Cina e Usa non avessero speso migliaia di miliardi di euro per definire nuove filiere che col controllo dello Stato centrale permettessero in quei paesi una produttività solida e diffusa.

L’Europa è incancrenita nel mito della concorrenza leale. Mito inesistente. Da sempre il capitalismo si è autorigenerato superando le regole che si erano inventate per salvaguardare le élite locali. Le stesse élite cancellavano quelle regole quando gli si ritorcevano contro. L’esempio dei Salva Banche planetari post 2008 ne è testimonianza. “No ai soldi pubblici nell’economia privata”, ma non finché servivano a salvare interessi e investimenti di pochissimi.

L’idea centrale del Piano Draghi è una, è quella di definire una sorta di politica europea comune che superi le singole strategie nazionale coordinandola da una spesa comune europea. Insomma propone di definire un unico spazio di spesa e investimento. Idea eccezionale e condivisibile, ma allora perché mascherarla dietro il mito della competitività?

Il piano definisce anche le ipotesi di spesa, fa di fatto politica industriale, e questo suscita curiosità. Perché Draghi prima critica il modello di spesa pubblico e poi definisce alcuni ambiti infrastrutturali e di investimento (reti, treni, industria bellica, nuova meccanica di precisione, AI) come unica alternativa al “fallimento” europeo.

Usa e Cina hanno salvato il proprio modello industriale investendo soldi pubblici e, con solo 5 anni di ritardo, anche l’Ue propone di fare lo stesso dopo l’esperienza del Next Generation Eu (da cui derivano i copiosi finanziamenti Pnrr e affini), ma perché demonizzare alcuni modi di gestione della spesa?

Sarà mica che si è già deciso quali élite industriali si vuole salvaguardare per il futuro e quali no?

Andrea Coinu

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