Scendono nei campi le Brigate del lavoro

Ormai vent’anni fa, per denunciare quanto subivano le lavoratrici e i lavoratori nei campi del nostro Paese, abbiamo iniziato a adottare una nuova modalità di fare sindacato, mutuata dall’esperienza della Federterra e della Federbraccianti: il sindacato di strada, divenuto oggi modello organizzativo a cui si ispira tutta la confederazione. 

Fare sindacato di strada ha significato per noi affiancare al classico presidio dei luoghi di lavoro fissi – delle fabbriche e dei magazzini – nonché delle sedi periferiche della nostra organizzazione, un’attività di ricerca attiva di lavoratrici e lavoratori, fatta di uscite già nelle prime ore del giorno, all’alba, per raggiungerli fisicamente dove vengono reclutati, o nei campi in cui sono impiegati, o nei cosiddetti insediamenti informali, quei ghetti dove chi lavora trova soluzioni alloggiative di fortuna, indegne di un Paese civile. Con i lavoratori parliamo dei loro problemi, li informiamo sui propri diritti contrattuali e previdenziali, per unire le difficoltà dei singoli in vertenze collettive di rivendicazione e di riscatto. 

All’inizio dell’anno, come segreteria nazionale Flai, abbiamo deciso di riprendere, dopo il fermo imposto dalla pandemia, la campagna nazionale “Diritti in campo” con le Brigate del lavoro, programmando due settimane di sindacato di strada nel territorio dell’agro-pontino, due settimane nel foggiano per il periodo estivo e una settimana nel veronese in settembre. Allargando la possibilità di partecipare alle Brigate al mondo dell’associazionismo, nel solco dell’alleanza della Cgil con le realtà che compongono la rete de La Via Maestra. 

Gli eventi che hanno preceduto le settimane di attività nell’agro-pontino, la barbara uccisione di Satnam Singh, gli interventi delle forze dell’ordine nelle terre del Barolo, le inchieste sul caporalato nel trevigiano e nel veronese dimostrano quanto purtroppo siano ancora attuali sono le nostre rivendicazioni e le nostre denunce. Da Nord a Sud lo sfruttamento in agricoltura è un fenomeno estremamente diffuso. I controlli, insufficienti, attestano intorno al 60% le irregolarità in ambito agricolo, di cui sono vittime indistintamente uomini e donne italiane e donne e uomini stranieri. 

Se ormai possiamo dire che la parte repressiva della legge 199 del 2016 – a cui si è arrivati sull’onda delle nostre lotte e rivendicazioni – ha un’applicazione che porta spesso importanti risultati (anche se ancora non è sufficiente la ricostruzione completa della filiera dello sfruttamento, che troppo spesso si ferma alle responsabilità del caporale senza intaccare le aziende che attraverso questi ultimi beneficiano di manodopera a basso-costo), non possiamo invece ritenerci soddisfatti dell’attuazione della parte preventiva della norma. Sono ancora troppo poche le Sezioni territoriali della Rete del lavoro agricolo di qualità. E anche quelle costituite segnano spesso forti rallentamenti nella loro operatività e nelle azioni da introdurre per debellare il fenomeno del caporalato. Le Sezioni territoriali sono il fulcro della legge 199, sono il luogo in cui istituzioni, organizzazioni sindacali, organizzazioni professionali e organi di controllo dovrebbero trovare le soluzioni più idonee nel territorio per superare sfruttamento e caporalato. 

I caporali proliferano e si insinuano in un mercato del lavoro che non è oggi in grado di dare risposte trasparenti e libere da infiltrazioni malavitose all’incrocio di domanda e offerta di lavoro. Pensiamo che sia un dovere delle istituzioni ripristinare un’agibilità efficace e funzionale in capo alle agenzie regionali del lavoro e ai centri per l’impiego; mentre è nelle Sezioni territoriali che si dovrebbero trovare soluzioni di trasporto per i lavoratori e le lavoratrici dell’agricoltura, perché proprio sui trasporti fanno leva i caporali. Ed è sempre nelle Sezioni che si deve lavorare ad una programmazione per l’accoglienza dei lavoratori e delle lavoratrici migranti che ritroviamo ammassati in condizioni indegne nelle baraccopoli della vergogna in Puglia, in Calabria, in Sicilia o nei fatiscenti casolari del Nord come nel veronese, nel trevigiano, nel cuneese, nelle provincie friulane. A questo proposito, rivendichiamo che le risorse previste dal Pnrr per l’uscita dai ghetti siano messe a terra e si dia vita e concretezza ai progetti comunali che muovono in questa direzione.

Abbiamo trascorso due settimane nell’agro-pontino, dove, dopo l’assassinio di Satnam Singh, abbiamo potuto osservare e smascherare un sistema di sfruttamento diffuso che purtroppo ben conosciamo e denunciamo da anni, ignorati, tacciati di catastrofismo e accusati di macchiare l’onore delle produzioni agroalimentari del Paese. Un sistema che fa leva, per le caratteristiche di quel territorio che vede una massiccia presenza di manodopera straniera, principalmente indiana, sulla legge Bossi-Fini che costringe i lavoratori e le lavoratrici a sottostare allo sfruttamento quando sono in possesso del permesso di soggiorno e a subire condizioni umilianti, denigranti, fino alla riduzione in schiavitù quando devono sottostare alla macchina infernale dei permessi stagionali. Solo il 20% delle richieste dei decreti Flussi vengono trasformate in permessi di soggiorno per la finalizzazione del rapporto di lavoro e questo crea una moltitudine di ragazzi e ragazze, di uomini e donne in balia della malavita, dei caporali, di padroni senza scrupoli come accaduto a Satnam e alla sua compagna Soni. 

E allora ci domandiamo, perché non si interviene richiamando alle loro responsabilità quelle aziende che prima richiedono manodopera e poi lasciano le persone nell’oblio? Perché, ancora una volta, sembra che le aziende non siano anch’esse complici di questo sistema di sfruttamento? Perché le tante aziende sane che subiscono una concorrenza sleale e scorretta non sono al nostro fianco nel rivendicare un sistema trasparente che, anche attraverso l’applicazione degli indici di coerenza previsti dalla legge 199 e un collocamento trasparente e pubblico, possa debellare la piaga del caporalato? Non servono azioni spot come quelle di questi giorni, serve una programmazione di controlli sistematica anche attraverso nuove risorse per l’assunzione di ispettori, serve che siano tutti chiamati alle proprie responsabilità nei casi di lavoro nero e grigio, nei casi di sfruttamento, e serve che vengano davvero e sempre riconosciuti i permessi di soggiorno e i percorsi di protezione per chi denuncia sfruttamento e caporalato, onde evitare che i testimoni di questi reati vengano relegati ancor di più nell’invisibilità con l’espulsione dal Paese: così si puniscono le vittime anziché i responsabili di questi crimini. È evidente che va cancellata la Bossi-Fini, legge che fa proliferare malavita e criminalità attraverso la tratta di esseri umani, attraverso lo sfruttamento, attraverso il caporalato. 

Dopo Latina ci siamo spostati a Foggia, nella stagione della raccolta del pomodoro, quell’“Oro rosso” che diede il nome ad una delle prime campagne nazionali di denuncia dello sfruttamento in agricoltura nel lontano 2008, quando ancora il caporalato era quasi un reato amministrativo punito con una banale ammenda. Mentre, a settembre, le Brigate del lavoro si sposteranno nel territorio di Verona. Perché lo sfruttamento non è un problema solo del Mezzogiorno, ma anche del Nord, come ormai le cronache testimoniano da anni. E il sistema di abusi nelle campagne non è un fenomeno legato alla bassa redditività delle produzioni: anche prodotti fiore all’occhiello del Made in Italy, come quelli del settore vitivinicolo, ne sono infiltrati. 

Abbiamo percorso tanta strada da “Oro rosso”, abbiamo ottenuto tanti risultati, nel 2011 la prima legge contro il caporalato che lo rende reato penale fino alla legge 199 del 2016 contro lo sfruttamento lavorativo, ma ancora non abbiamo sconfitto questa piaga. Per questo la campagna Diritti in Campo, per continuare la lotta per sradicare dal nostro sistema produttivo caporalato e sfruttamento.

Non smetteremo di essere in prima linea nella tutela dei lavoratori e delle lavoratrici agricole, non smetteremo di essere la voce degli invisibili, non smetteremo di essere la voce delle tante donne, delle tante ragazze che oltre allo sfruttamento lavorativo spesso devono subire anche le molestie sessuali, non smetteremo di essere a fianco e di organizzare chi insieme alla Flai e alla Cgil vorrà alzare la testa e lottare per un sistema produttivo e un mondo più giusto, più equo e dignitoso. Non smetteremo di lottare, non smetteremo di fare rumore, non abbasseremo la testa difronte alle ingiustizie e alla barbarie; abbiamo alle spalle oltre 120 anni di storia di lotte che sono le nostre radici e la nostra forza, sono il cuore e l’anima delle nostre battaglie, sono la linfa che continuerà a farci guidare le rivendicazioni di chi per vivere deve lavorare e di chi non si arrende alle prepotenze e all’illegalità.

Silvia Guaraldi

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