Sempre meno libere di scegliere

Valeria Cappucci

La Legge 194 è, in questi ultimi tempi, bersaglio di attacchi senza precedenti, di crociate e di intimidazioni. Pur con i suoi limiti, è una conquista del movimento delle donne. Confermata da un referendum popolare, è uno strumento valido per difendere l’autodeterminazione della donna in uno dei momenti cruciali della sua vita: quando deve decidere se diventare o no madre. 

Le uniche modifiche possibili e accettabili sono quelle che servono a farla funzionare, e cioè a ridurre gli effetti dell’obiezione di coscienza e a ovviare allo scarso funzionamento o addirittura all’inesistenza dei consultori in molte zone del Paese. 

Quello che avete appena letto è l’incipit di un articolo che troviamo su Verde Rosso – mensile della Flai Cgil degli anni ’90. 

Pubblicata nel numero di aprile del 1989, questa riflessione oggi ha esattamente trentuno anni ma, se non fosse per alcuni dettagli e riferimenti, potremmo averla scritta ieri. 

L’obiezione di coscienza – prosegue l’articolo – ha sempre meno a che vedere con la coscienza, oggi. Non si è mai vista una tale opposizione a una legge dello Stato. […] se si obietta alla 194 si fa carriera. Meglio ancora se si obietta in ospedale e si fanno gli aborti privatamente, come le cronache insegnano. L’obiezione di coscienza, da diritto individuale previsto dalla legge, e che va rispettato, è diventato un massiccio fenomeno ostativo al funzionamento della legge stessa e mette concretamente le donne nella impossibilità di praticare l’interruzione di gravidanza. 

Attualmente la percentuale degli obiettori supera, in alcune Regioni, l’80%; in base ai dati del Ministero della Salute in Italia risulta obiettore quasi il 64% dei ginecologi. 

Oltre ai gravissimi rischi di aborti clandestini, ci si dimentica di fare i conti con i tantissimi casi in cui l’interruzione di gravidanza non è volontaria. Viviamo in una società che è talmente contraria all’idea dell’aborto, che non rispetta mai la donna e il suo corpo anche quando quell’interruzione è involontaria e traumatica. Ce lo ha raccontato Maria Antonia Fama, in un articolo pubblicato su Collettiva qualche tempo fa, che le donne quando devono ricorrere all’aborto vengono giudicate criminali oppure incapaci e difettose, in sostanza sono solo uteri da raschiare. Perché sì, quello che dà fastidio a questa società ipocrita di falsi difensori della vita è proprio l’aborto in sé. Non si deve vedere, non si deve nominare. Non lo si può proprio accettare. La vita non può fallire, in nessun modo.

Ma anche questa, non è una novità. Lo abbiamo sempre saputo e una conferma la troviamo proseguendo nella lettura della riflessione del 1989.

[…] dobbiamo ancora fare i conti con quella ridotta, con la sterilità procurata, con i parti prematuri, con le malformazioni fetali, con l’espropriazione, in sintesi, della capacità riproduttiva causata dalle condizioni ambientali e di lavoro. Gli «aborti bianchi» e i danni derivanti all’apparato riproduttivo delle lavoratrici, dei lavoratori e al feto, dalla nocività ambientale e lavorativa sono sempre assenti e volutamente ignorati dalle tiepide preoccupazioni per la vita degli antiabortisti.

Il seppellimento dei feti, secondo questa aberrante concezione, è un atto di pietà umana, mentre una lavoratrice incinta esposta a radiazioni o a sostanze chimiche rientra nella «normale logica produttiva». 

La legge sull’interruzione volontaria di gravidanza in Italia è incessantemente sotto attacco, con modalità e campagne – non solo pubblicitarie – sempre più violente, che hanno sempre reso difficile se non impossibile l’accesso all’aborto, con il preciso intento di colpevolizzare le donne e attaccare la loro libertà rispetto alla maternità.

La norma recentemente approvata che consente alle associazioni antiabortiste, con metodi a dir poco discutibili, di presidiare i consultori familiari è solo l’ultimo (per ora). Ma la presenza di queste associazioni non è una novità. Basti pensare a tutti i progetti e le azioni introdotte a livello regionale negli ultimi anni. Per fare solo qualche esempio: il progetto “Nasko” in Lombardia, la mozione approvata a Verona e in tanti altri comuni sulle “città a favore della vita”, l’introduzione di stanze dell’ascolto nei centri in cui si pratica l’aborto. Ma se prima si trattava di iniziative a livello regionale, l’attuale governo ha posto il sigillo a livello nazionale e questo è stato purtroppo possibile grazie all’impianto stesso della Legge 194 che ha sempre tenuto aperta la strada agli interventi politici che sono sotto gli occhi di tutti.

Bisogna avere coraggio e uscire dalla dicotomia tra attacco e difesa e iniziare a lavorare per modificare questa legge affinché garantisca davvero l’accesso e il diritto all’interruzione di gravidanza eliminando l’obiezione di coscienza e riformando i consultori, che in molte aree stanno letteralmente scomparendo. Altrimenti continueremo ad essere sempre meno libere di scegliere. 

Non è su questi piani né con queste armi ma soprattutto non è sui nostri corpi che si può combattere la denatalità. Facciamo qualcosa, facciamo presto. 

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