Diageo, trasferimento produzioni, la proprietà manda a casa 349 lavoratori  

Allemandi, Flai Cgil: “Sacrificati sull’altare del massimo profitto”

Gli affari vanno a gonfie vele, ma la multinazionale chiude e delocalizza. Quante volte una vertenza inizia con queste parole? Tante, troppe, sempre più spesso. In questo caso sono gli inglesi di Diageo ad annunciare la chiusura dello storico stabilimento del cuneese, la ex Cinzano di Santa Vittoria D’Alba. Eppure, ogni anno escono da qui 15 milioni di casse di superalcolici, soprattutto vodka, rum e bevande miscelate, ready to drink, destinati ai quattro angoli del pianeta. Alberto Allemandi, storico delegato sindacale con nel portafoglio la tessera della Flai Cgil, non si capacita: “L’ultimo incontro con i manager era stato appena la settimana scorsa, il 19 novembre – racconta – E solo in quell’occasione i dirigenti della Diageo avevano iniziato a dirsi preoccupati, parlando di qualche difficoltà. Sette giorni dopo la doccia gelata, la multinazionale degli alcolici annuncia la chiusura dello stabilimento cuneese e quindi il licenziamento dei 349 dipendenti”. Trecentocinquanta vite bevute in un amen, come una vodka lemon.  “Ci hanno svuotato passo dopo passo – denuncia Allemandi – evidentemente le intenzioni dei vertici di Diageo erano chiare da tempo. La perdita dei volumi di produzione era già iniziata nel 2022, con la cessione dell’aperitivo bitter Picon a Campari. Poi, lo scorso luglio, la vendita al gruppo Montenegro del rum Pampero, altra produzione che impegnava le linee del sito di Santa Vittoria”. Già nel 2016 lo storico stabilimento ex Cinzano, che nel secolo scorso è stato un centro di riferimento di eccellenza per il settore vinicolo italiano, era entrato in crisi. Naturalmente per colpa delle ‘strategie di mercato’ della multinazionale, che in barba a ogni logica se non quella della ricerca della maggiore redditività, aveva deciso di cedere il comparto di un vino che arrivava addirittura dalla California e dall’Australia. Altro che chilometro zero. Bontà sua, il colosso delle bevande che ha il suo quartiere generale a Londra, decise di sostituire il comparto imbottigliamento vino con nuove produzioni come vodka, rum e bevande ready to drink a marchio Smirnoff. 

Il sereno non è durato molto, altre produzioni sono via via state trasferite in alcuni dei tanti stabilimenti della multinazionale nel nord Europa. Ora la decisione di chiudere, con Diageo che si è giustificata affermando che solo una piccola parte di quanto esce dalla distilleria di Santa Vittoria D’Alba è destinata al mercato italiano. Quindi la multinazionale che produce tra gli altri il whisky Johnnie Walker, la birra Guinness e la vodka Smirnoff, ha detto senza mezzi termini che si produrrà altrove e che la fabbrica deve essere chiusa entro il giugno 2026. “Abbiamo un anno e mezzo di tempo – tira le somme Allemandi – per cercare di ridurre il danno. Sappiamo bene che quando una multinazionale fa un passo del genere è difficile che torni indietro. Al tempo stesso non possiamo non considerare che nonostante lo spostamento di alcuni prodotti che uscivano di qui, gli affari continuavano ad andare più che decentemente”. Anche in assoluto, visto che nel primo semestre dell’anno Diageo ha registrato sì una flessione dell’1%, ma stiamo parlando di un fatturato di 20,3 miliardi di dollari, quasi 20 miliardi di euro. 

All’annuncio della chiusura le lavoratrici e i lavoratori di Santa Vittoria D’Alba sono subito entrati in sciopero, ai cancelli dello stabilimento è arrivato fra i tanti anche il presidente piemontese Alberto Cirio, in difesa delle maestranze. Se contiamo i lavoratori delle ditte esterne, i somministrati e l’indotto, questa crisi coinvolge ben più dei 349 dipendenti Diageo e relative famiglie. “Si rischia un disastro sociale – spiega Allemandi – La ricerca del massimo profitto ricade su chi fino ad oggi ha continuato a garantire, con dedizione e professionalità, l’impegno per mantenere gli standard produttivi e qualitativi richiesti. Entro gennaio presenteranno un social plan per attenuare il disastro, ma che al momento non prende in considerazione un eventuale ripensamento o cambio di strategia”.

Allemandi è un pezzo di storia della distilleria, con i suoi 34 anni di anzianità di servizio. “Sono entrato nell’agosto 1990, e nemmeno allora la situazione era rosea – ricorda – La proprietà era per il 50% della famiglia Marone Cinzano, un 25% era della Fiat e il restante 25% già di proprietà del gruppo Diageo, una multinazionale che al tempo non si occupava solo di alcolici ma anche di alimentari, surgelati e altro ancora. In seguito alla morte del conte Marone Cinzano all’inizio degli anni ‘90, i tre figli decidono di vendere. Compra tutto la Diageo, anche la quota azionaria della famiglia Agnelli”. Sono anni di cambiamenti, ma sotto l’ala della multinazionale a Santa Vittoria D’Alba si vivono stagioni felici. “Avendo un enorme capitale, Diageo aveva reso lo stabilimento all’avanguardia sotto tutti i punti di vista. Non solo per quanto riguarda le tecnologie, anche sul fronte dell’impegno sociale, con tanto di panchine rosse contro la violenza alle donne, politiche green, disposizioni ben precise per una corretta integrazione di chi arrivava qui a lavorare da paesi stranieri e via dicendo. Ma quando si andava a discutere di una produttività che per il management doveva essere sempre, sempre più alta, cadeva il velo dell’ipocrisia”.

Dopo la pandemia gli affari che comunque non si erano mai fermati, erano tornati ad andare splendidamente, a tal punto che erano stati stabilizzati rapidamente lavoratrici e lavoratori più giovani, entrati come stagionali o attraverso agenzie interinali. “Sono bastati due anni per passare dal sole del contratto indeterminato al buio del licenziamento”, ben sintetizza Allemandi prima di salire sul palco e raccontare la storia della ‘sua’ fabbrica nel giorno dello sciopero generale di Cgil e Uil. 

Frida Nacinovich

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