Pordenone, i migranti non hanno la scuola, la scuola va dai migranti 

Senza conoscere la lingua diventa ancora più difficile capire che ci sono diritti da rispettare. Di qui l’idea della Flai Cgil di aprire un piccolo istituto a Ramuscello

Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna. Benvenuti a Ramuscello, piccolo centro del Friuli Venezia Giulia, nel comune di Sesto al Reghena. Dove ai 1.500 residenti si è aggiunto negli ultimi tempi un gruppo di migranti indiani, arrivati per lavorare nelle campagne del pordenonese. Ragazzi giovani, che hanno voglia di fare e bisogno di integrarsi, anche imparando naturalmente la lingua del loro paese di adozione. “Sono bravissimi – racconta Dina Sovran, segretaria Flai Cgil di Pordenone – ma con le loro biciclette non possono certo raggiungere il capoluogo per frequentare la scuola di italiano che abbiamo allestito a Pordenone”. Che fare? Senza conoscere la lingua diventa ancora più difficile capire che hanno dei diritti che devono essere rispettati. Di qui l’idea del sindacato dell’agroindustria di aprire una piccola scuola dove vivono, in quel piccolo paese dal nome poetico: ramo del ruscello, del fiume che corre nella zona sud occidentale del Friuli, il Tagliamento. “Abbiamo trovato un’insegnante paziente e preparata – spiega Sovran – ben disposta a lavorare a Ramuscello. In parallelo l’amministrazione comunale di Sesto al Reghena si è detta disponibile a dare uno spazio per la scuola di italiano, una struttura pubblica da attrezzare per le lezioni”. 

Sta prendendo corpo così un progetto parallelo a quello che è già in piena attività nel capoluogo, dove l’ultima lezione prima delle feste natalizie è finita con la più classica delle tombolate. “L’integrazione passa anche dal gioco – sorride Dina Sovran – perché non dobbiamo mai dimenticare quanti e quali siano le difficoltà e le storie, quasi sempre drammatiche, che accompagnano questi giovani arrivati da mondi lontani nel nostro paese”. I ragazzi si divertono con la Tombola, imparano l’italiano insieme agli usi e costumi della loro nuova terra. “Hanno chiesto di avere un Pandoro per salutare l’arrivo delle feste. E la mamma della nostra iscritta Pashmeen ha anche preparato per l’occasione dei dolcetti indiani, quelli speziati della loro tradizione, creando così un vero e proprio melting pot gastronomico”. Perché l’integrazione tra popoli diversi, come sempre è accaduto, passa dal cibo. “Avresti dovuto vedere con che gioia, dopo l’iniziale stupore, hanno assaporato una ricetta tradizionale del loro paese. Per un attimo è stato come tornare a casa”. Durante le lezioni di italiano, si trova anche il tempo per spiegare quali sono i diritti e le tutele che spettano loro, quelle dei lavoratori agricoli, a partire dalla disoccupazione che copre i mesi di pausa nella coltivazione e nella raccolta dei prodotti della terra. Eccolo il Sindacato di strada, fiore all’occhiello della Flai di Giovanni Mininni, azione quotidiana che non è solo quella di andare a conoscere direttamente nel luogo di lavoro i migranti, ma anche quella di accompagnarli ad apprendere la lingua, gli usi, i costumi e soprattutto i diritti del paese che con le loro fatiche contribuiscono a mandare avanti. “Chi arriva qua spesso non sa cosa siano i diritti – sottolinea Sovran – e accetta come fosse normale di essere sfruttato e mal pagato. L’ennesimo aspetto di quella banalità del male in cui sempre più spesso ci imbattiamo”. 

Eppure gli ultimi dati Istat raccontano che sono quasi due milioni e mezzo i lavoratori stranieri in Italia, il 10,3% del totale, e il 75% di loro ha la qualifica di operaio. Illuminante in proposito un rapporto di Mediobanca che analizza il contributo alla crescita delle politiche di integrazione, arrivando alla conclusione che l’integrazione dei migranti è un punto di arrivo inevitabile per l’economia e la società italiana. “Le politiche strutturate pagano in termini economici – tira le somme Alberto Nagel che di Mediobanca è l’amministratore delegato – ma richiedono ingenti stanziamenti di risorse pubbliche e lunghi periodi di attesa prima che producano frutti”. Come in agricoltura insomma, dove ci vuole grande cura e lavoro duro per far sì che la natura segua il suo corso e regali all’uomo i frutti della terra. Frutti che dovrebbero essere equamente divisi e che invece non lo sono, visto che sugli oltre 6,2milioni di attivazioni di contratti di lavoro nei primi nove mesi del 2024, ben il 37,5% è part time. Orario ridotto ma solo sulla carta, perché la realtà ci dice che spesso e volentieri di lavora dall’alba al tramonto, anche e più delle otto ore quotidiane fissate nei contratti nazionali.

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