Intervista alla copresidente dell’associazione che con il sindacato dell’agroindustria ha stretto un’alleanza che andrà avanti nel 2025
Quel giorno gli occhi di Giulia Torrini, copresidente di Un Ponte Per, erano lucidi di commozione. Assieme a Sharif Hamad e Stefano Rea aveva appena ricevuto un’accoglienza calorosa all’assemblea generale della Flai Cgil. “La bandiera palestinese e tutti quei cartelli con scritto ‘Stop genocidio a Gaza’ mi hanno particolarmente colpita. Il sindacato chiede senza giri di parole di fermare l’orrore nella Striscia. E chi dovrebbe ascoltare il mondo politico, se non i rappresentanti dei lavoratori? Quella della Flai di Giovanni Mininni è una presa di posizione chiara, netta, davanti a una classe politica sorda cieca e muta, come le tre scimmiette del proverbio”. E insieme alla bandiera palestinese quella della pace, in risposta a un mondo piagato dalle guerre.
Davvero un bel legame, quello tra la Flai Cgil e Un Ponte Per…
“Grazie al vostro contributo, insieme siamo riusciti a mettere al riparo 200 famiglie sfollate, costrette a trascorrere l’inverno in tende realizzate con materiali di fortuna nei campi informali di Al Mawasi e nelle aree centrali della Striscia. I vostri fondi sono subito stati inviati all’organizzazione palestinese Union of Agricoltura Work Commites (Uawc), che dall’inizio del genocidio non ha mai smesso di fornire aiuti alla popolazione sfollata. E’ una rete impegnata a sostenere contadini, lavoratori agricoli e pescatori palestinesi”.
Non siete soli in questa essenziale attività di sostegno alla popolazione civile della Striscia, bombardata senza pietà da più di un anno.
“Ci sono tanti singoli cittadini, associazioni e realtà della società civile che si uniscono alla nostra attività quotidiana, per camminare insieme sull’ideale ponte che abbiamo costruito andando avanti e indietro dalla Striscia, distribuendo aiuti umanitari. Lì ammalarsi significa spesso morire, perché non ci sono medicine e manca addirittura l’acqua. Non si tratta solo di ripararli dal freddo, ma di aiutarli a sopravvivere”.
Oggi gli orrori delle guerre sono sotto gli occhi di tutte e tutti, giorno dopo giorno. Non temete che alla fine ci sia una sorta di assuefazione all’insopportabile stato delle cose di cui siamo testimoni?
“Travolti dalle difficoltà quotidiane, tanti e tante di noi finiscono per ‘proteggersi’ cercando di non pensare alle notizie tragiche di cui pure vengono a conoscenza. Oggi non è semplice nemmeno far rispettare i propri diritti. Penso all’aborto e a tutte quelle conquiste che sono incredibilmente messe in discussione, dal diritto allo studio a quello alla salute, per non parlare della dilagante precarietà in una paese che dovrebbe costituzionalmente essere fondato sul lavoro. Una democrazia non dovrebbe funzionare così. Allora, complice un’informazione tante volte incompleta, spesso addirittura distorta, diventa difficile concentrarsi su quello che accade nel mondo. E una politica complice non fa niente per cambiare lo stato delle cose”.
Come è nato l’incontro fra Giulia Torrini e Un Ponte Per ?
“Ero un’operatrice dei centri di accoglienza in provincia di Brindisi, ho visto cosa sono i ghetti, toccato con mano la piaga dello sfruttamento e del caporalato. Avevo legato in particolare con la comunità curda irachena, lavoravo in un centro di accoglienza maschile con ottocento ragazzi. Mi facevano vedere le foto dei loro paesi, da cui erano stati costretti a fuggire per cercare una vita migliore, lontano dalle guerre e dagli orrori che portano invariabilmente con sé. Mi era venuta una gran voglia di andare a vedere quella parte del Kurdistan, l’unica autonoma, nel nord dell’Iraq. Mi sono informata e ho scoperto che Un Ponte Per lavorava in quell’area e aveva una sede a Pisa, nella mia regione. Così ho incontrato Martina Pignatti, che ora la dirige e all’epoca era presidente dell’associazione. Le ho parlato della mia passione per lo sport e del mio desiderio di visitare il Kurdistan. Di capire se lì si sarebbero potuti organizzare progetti sportivi, in parallelo a quelli solidali che Un Ponte Per porta avanti da anni. Allora Martina mi ha detto: ‘Vieni con noi, partiamo fra pochi giorni’. Da quel momento sono entrata a far parte, di fatto, dell’attività dell’associazione. Fino ad organizzare un torneo di calcetto dentro il campo profughi di Ashti ad Ainkawa. Da allora non ho mai smesso di partecipare alle iniziative di Un Ponte Per”
Dove opera l’associazione ?
“Nell’Asia Occidentale e nel Medio Oriente: Iraq, Giordania, Libano e nord est della Siria. Per tanti anni siamo stati nei Balcani, oggi siamo anche in Tunisia, in Ucraina e a Gaza. Questi ultimi due ponti li abbiamo ‘aperti’ in concomitanza con l’inizio delle guerre che stanno provocando sofferenze e devastazioni inenarrabili, con decine e decine di migliaia di vittime e una marea di feriti. Prima facevamo ‘peacebuilding’ soprattutto nelle scuole, attività educative, di contatto con i pacifisti, con gli obiettori di coscienza. Quando si scatenano le crisi i nostri contatti diventano ponti di solidarietà, quindi raccolte di fondi e progetti sul posto per cercare di attenuare le sofferenze delle popolazioni civili”.
Riuscite anche ad operare nel nostro paese, Un Ponte Per è una realtà riconosciuta in Italia. Ma come si va avanti all’epoca del ‘Ddl paura’?
“Con provvedimenti del genere diventa difficile anche stare in piazza. Per questo abbiamo fatto un progetto sui vent’anni di Genova, nel 2021, per raccontare quell’anno di repressione, uno spartiacque rispetto alla capacità di fare aggregazione, di avere un movimento globale, quello altermondialista, di civile dissenso. All’epoca tutto fu travisato, boicottato, represso. Rimanemmo scioccati, sia noi che le nostre famiglie. I ventenni di oggi sono figli di quelle drammatiche, tragiche annate. Intanto i governi continuano a reprimere la possibilità di esprimere le proprie idee. Rimbalziamo su un muro, allora bisogna scavalcare questo muro e fare ponte, farci sentire con i mezzi che abbiamo, senza essere arrestati e avere un foglio di via”.
La solidarietà a chi cerca di sopravvivere nella Striscia di Gaza diventa un dovere morale, di fronte a quello che si qualifica come un autentico genocidio?
“Agli occhi dei palestinesi la solidarietà assume un’importanza cruciale. Sono il popolo più resistente del mondo, ma hanno un disperato bisogno di sapere che il resto del mondo si rende conto di quello che sta accadendo. Nelle loro condizioni, noi occidentali ci abbandoneremmo alla disperazione dopo un secondo”.
L’alleanza solidale con la Flai andrà avanti anche nel 2025, un gran bel segnale per voi. Non è solo un bel gesto fatto per sentirsi meglio, non è beneficenza, è una posizione politica nel senso più nobile del termine…
“La prima volta che ci siamo incontrati avevamo quasi paura a usare il termine ‘genocidio’, spesso per non urtare le sensibilità altrui si finisce per autocensurarsi. Invece ci avete aperto il cuore. Quella palestinese è una popolazione che vive di agricoltura, di pesca, della raccolta delle olive, sono tanto simili a noi. Lì stanno distruggendo e avvelenando l’intero territorio, così che non ci ricresca niente. Davanti a questo stato di cose, tanti dovranno fare i conti con le proprie coscienze. E poi ci sarà da ricostruire. Intanto però l’Europa pensa solo a inviare armi nei contesti di guerra, penso che questa sia l’onta più grave per il popolo italiano. Le armi sono il nuovo made in Italy, non più la moda o l’olio di oliva, il vino, i prodotti alimentari. Esportiamo sistemi ottici di puntamento e altre tecnologie belliche, ce ne dovremmo vergognare”.
Frida Nacinovich