Le aree interne viste da Metes: cambiare il modello di sviluppo 

Ad Arco de’ Ginnasi docenti universitari e specialisti del settore per presentare il nuovo numero della rivista AE

La crisi e il progressivo spopolamento delle aree interne sono un problema su cui la Flai Cgil, e la ‘sua’ Fondazione Metes, accendono i riflettori. Ad Arco de’ Ginnasi, dove la scuola politico-sindacale della Flai organizza corsi di formazione e di approfondimento per offrire una ‘cassetta degli attrezzi’ che aiuti a leggere e interpretare la contemporaneità, la presentazione del terzo numero della rivista AE, agricoltura, alimentazione, economia, ecologia, diventa l’occasione per una discussione a tutto campo con sindacalisti, studiosi e addetti ai lavori. “Nel primo numero della rivista abbiamo raccontato l’impatto dei cambiamenti climatici sul settore agroalimentare – spiega la presidente di Metes, Tina Balì – nel secondo ci siamo concentrati sul cibo che è un bene comune. Oggi parliamo di aree interne, analizzando queste porzioni di territorio da diversi punti di vista. Tutti tasselli di un solo un mosaico, in un percorso contro la narrazione mainstream per tratteggiare un nuovo modello di sviluppo possibile”.  

“L’onda lunga del paradigma neoliberista porta a un  disinvestimento sociale e politico sui territori marginalizzati – osserva Massimiliano D’Alessio della Fondazione Metes – ritenuti non in grado di stare al passo con la competizione. La crisi del modello capitalistico riguarda l’ambiente, il welfare, i migranti. Temi che impattano inevitabilmente proprio sulle arre interne, che allora devono diventare l’occasione di invertire la tendenza”. Daniela Storti del Crea racconta della difficoltà di modernizzare l’agricoltura, mediando le tensioni sociali. “La prima parte forse è riuscita, la seconda sicuramente no. Perché manca la politica, una coprogettazione che renda possibile lavorare insieme”. Ad Arco de Ginnasi non si parla di confini ma di frontiere. E di cibo buono e giusto. Alessandra Stefani del Cluster Italia Foresta legno sottolinea come dalle foreste escano anche prodotti che fanno parte della filiera agroalimentare: funghi, miele, tartufi, per dirne solo tre. “E lo sviluppo della biodiversità è l’unico modo per prevenire i dissesti idrogeologici. Le città non rendono alle zone collinari tanto quanto prendono”.

Il professor Rossano Pazzagli, che coordina la tavola rotonda, non usa giri di parole: “Se pensiamo di affrontare il tema delle aree interne utilizzando lo stesso modello che le ha marginalizzate facciamo un buco nell’acqua, oppure sprechiamo risorse. Un modello di sviluppo polarizzante in un paese storicamente policentrico non può funzionare. Per giocare questa partita bisogna uscire dalla logica dei numeri, del grande e del piccolo, inesorabilmente trasformati in diseguaglianze sociali”.

Cosa è successo? Cosa è rimasto? Cosa fare? Risponde lo storico, saggista e scrittore Piero Bevilacqua: “Siamo vittime di letture superficiali della realtà, alimentate da un moderatismo che è stato esteso come uno strato di asfalto sull’intelligenza pubblica. Le aree interne si spopolano perché è crollata l’economia che reggeva questi aggregati democratici. Un modello secolare di agricoltura muore strozzata a monte dalle corporazioni dell’agro business, a valle dai bassi prezzi dei centri commerciali, delle catene della grande distribuzione organizzata. Il problema è riportare le persone sulle alture per custodire il territorio, non facciamo diventare clandestini i ragazzi che arrivano in Italia, non li sfruttiamo nei campi come schiavi, potrebbero dare una gran mano. Stabiliamo un reddito di presidio ambientale da fornire a tutti quelli che operano in montagna e in collina. Non cacciamo gli immigrati per la follia ideologica e demagogica di questo governo”. Gli fa eco Christian Ferrari, della segreteria nazionale della Cgil: “Il sindacato deve essere in grado di tradurre il disagio in azione concreta, in una prospettiva di cambiamento del modello di sviluppo. Uno dei terreni più avanzati su cui sfidare il governo è proprio quello della ricerca di un lavoro di qualità e pagato decentemente, in un contesto sociale che neghi i servizi essenziali ai cittadini”. La segretaria nazionale della Flai, Silvia Spera, aggiunge: “Questa discussione rimette al centro del dibattito pubblico il rapporto tra democrazia e partecipazione. Sul tema delle aree interne il Censis, che ha appena pubblicato il suo ultimo rapporto, legge il continuo divorzio tra città e campagne, un processo che si è accentuato. Negli ultimi dieci anni 800mila persone hanno abbandonato le aree interne, ma c’è un dato che deve farci riflettere: gli stranieri che sono emigrati in queste aree sono aumentati del 7%. Questo significa che laddove mancano i servizi aumenta un’emigrazione povera. La Flai già dal 1974 ha lanciato campagne di recupero delle aree interne. Oggi il costo delle terre è lievitato ed è nelle mani di pochi, che praticano una coltivazione intensiva. Mi ha colpita che sia il ministro Lollobrigida sia la Coldiretti sostengano che l’agricoltore è la sentinella del territorio. Ma non può mancare una politica di indirizzo da parte del Pubblico. Ci sono tanti incentivi sull’agricoltura, ma di che tipo di agricoltura parliamo? Quello che sta accadendo in Europa ci dice che dobbiamo tutelare i posti di lavoro rispettando dell’ambiente”.

Infine ecco Cesare Moreno, presidente dell’associazione Maestri di strada: “Ci sono tanti incentivi inutilizzati, c’è tanta frammentazione. Servono persone competenti e polifunzionali per fare andare avanti un’azienda agricola. Non si può più seguire strade uniformi, come fu fatto con la riforma agraria degli anni ‘50. Il legame tra agricoltura, salute ed ecologia umana è l’obiettivo che dobbiamo rincorrere per ottenere una buona educazione alimentare. E dobbiamo pensare ad un modello dove i servizi non siano concentrati nei capoluoghi, ma distribuiti sull’intero territorio. Potrebbe rivelarsi uno strumento per attrarre nuova popolazione, soprattutto giovani”. Nell’ultimo numero della rivista AE si trovano queste riflessioni, e altre ancora. Un buon motivo per leggerselo d’un fiato. 

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