Matar Coura Gueye, col suo racconto epistolare, è uno dei vincitori dell’edizione 2024 del concorso organizzato dalla Flai Cgil. Ecco il testo completo dell’opera
Pubblichiamo in versione integrale “Lettera a Samba” di Matar Coura Gueye, l’opera vincitrice della VI edizione del Premio Jerry Masslo, nella sezione dedicata a produzioni realizzate da giornalisti, video-documentaristi, fotografi, autori di saggi, poesie, racconti e blogger. Questo racconto epistolare ha colpito la giuria del concorso per la sua feroce critica sociale, e per la capacità dell’autore di immedesimarsi in diversi punti di vista.
Caro amico,
so che hai sempre sognato anche tu di venire in Europa e che nel momento in cui leggi la mia lettera ti dirai perché io ti dico queste parole mentre io stesso sono in Italia. Ascoltami bene Samba, perché ti dirò cose che non ho mai detto a nessuno e lo farò perché sei il mio miglior amico e ti considero un fratello. Le parole non basteranno per farti capire che cos’è davvero questa Europa che mi ha intrappolato e ti tiene a bada.
Prima di venire in Italia, avevo una certa conoscenza dell’italiano ma solo grazie ai libri che avevo letto per curiosità. Il mio preferito era “I Malavoglia” di Verga perché mi ha permesso di fare collegamenti tra l’organizzazione della famiglia patriarcale Senegalese e quella meridionale particolarmente quella Siciliana. Avevo il forte desiderio di scoprire la bella cultura italiana, apprezzata in tutto il mondo. È cosi che ho iniziato a elaborare il mio progetto migratorio. Dopo aver sostenuto la mia tesi triennale, ho chiesto più volte il visto ma l’ambasciata me l’ha sempre negato e senza una ragione valida. Essendo un credente convinto, non mi sono mai arreso. Non dimenticherò mai quando il 13 giugno 2016 che ricevetti la telefonata dalla segreteria dell’Ambasciata italiana a Dakar, per informarmi che alla fine la mia richiesta aveva avuto un esito favorevole.
Non nascondo che ero contento della notizia ma allo stesso modo ero deluso dalla mancanza di fiducia delle autorità competenti.
Non ho mai avuto l’idea di fuggire, la mia intenzione era solo di fare un’esperienza scolastica per completare il mio percorso universitario e tornare in Senegal per servire la mia nazione. Pensare a quanto era stato complicato ricevere l’autorizzazione per motivi di studio, mi ha fatto a lungo riflettere sui motivi che spingono altre persone a percorrere strade illegali per arrivare a tutti i costi in Europa. Sono partito per sollevare papà dal pesante fardello che si è sempre sobbarcato nel provvedere a noi. Tra meno di un anno andrà in pensione e la sua età non gli permetterà più di fare certi sforzi fisici. Sono partito per migliorare le condizioni di vita della mia instancabile mamma, che non ha mai voluto farmi mancare nulla. Ho fatto questi sacrifici per permettere alla mia famiglia di avere una vita dignitosa.
Le Università italiane non funzionano come le nostre, dove i Governi le sovvenzionano a causa della povertà. Qui, la conoscenza ha un prezzo che a volte solo i ricchi possono permettersi. Io, avevo delle rate di tasse che dovevo completare per poter convalidare alcuni esami e sono stato costretto a svolgere ogni tipo di lavoro, in qualsiasi ora. Ho acquisito molte competenze, ho fatto dei lavoretti che non avrei mai fatto in Senegal.
Vivevo in un bilocale che condividevo con altri cinque migranti africani: due Ghanesi, due Nigeriani e un Tunisino che gestiva una kebabberia. Ho afftittato una stanza modesta senza contratto, quindi a nero. Pagavo 10 euro al mese per servizi precaro e 40 euro di energia elettrica, ogni sessanta giorni. L’appartamento era una casa abbandonata. Nonostante ciò, ognuno di noi doveva pagare 120 euro al mese per l’affitto. Non ho mai visto il proprietario con i mei occhi, so solo che è un tipo molto cattivo ed era Eric, uno dei miei coinquilini ad avere contatti con lui. A fine mese, gli davamo i soldi e lui faceva da tramite.
Abitavo a Castel Volturno, una delle città più multietniche della provincia di Caserta e probabilmente di tutta la penisola italiana. Castel Volturno è il punto di incontro di tutti gli africani. Questa città caotica è l’Africa in miniatura: la conferma della pluralità della cultura africana. È a Castel Volturno che per la prima volta ho sentito un nigeriano parlare inglese, in un tono musicale associato con parole tratte dai loro vari dialetti. È ancora lì che ho mangiato per la prima volta il fufu, uno dei piatti tipici del Ghana. Nelle prime settimane, ero scoraggiato e dispiaciuto e mi dicevo: “Come mai ho fatto tutto questo viaggio?”. Pensavo di poter imparare dalla cultura italiana ed invece è come se fossi tornato in Africa. Con il passare del tempo però, ho stabilito un legame con questa terra abbandonata, nel cuore del litorale Domizio.
A Castel Volturno, ho trovato un rifugio perché qui ci sono migliaia di migranti e perché è sempre da questo posto che partono i viaggi dei braccianti per lavorare nei campi che circondano Villa Literno. Durante la stagione dei pomodori puoi lavorare e assicurarti un pezzo di pane, anche se sei sfruttato, pagato senza alcuna garanzia e spesso schiavizzato. Gli agricoltori non sono tutti uguali e c’è chi ci vede ancora come merce.
È nei quartieri di Villa Literno dove il giovane rivoluzionario Sudafricano Jerry Essan Masslo fu ucciso, eppure anche lui desiderava solo che l’Italia fosse uno spazio di vita, di aria fresca e di accoglienza che gli avrebbe permesso di vivere in pace e coltivare il sogno di un futuro senza barriere o pregiudizi. Penso e spero che Jerry non sia morto invano perché se i lavoratori invisibili hanno guadagnato in considerazione, anche se poco, il merito è di quell’eroe che ha sacrificato la propria vita. Mi sento molto vicino a Jerry Essan Masslo e quasi mi sembra di capire i suoi pensieri.
Ho lasciato il Senegal con la speranza che l’Italia mi avrebbe offerto una vita migliore ma credimi fratellino, è solo un mito. Si cambia di orizzonte ma i problemi rimangono gli stessi, come dissero i latini “qui trans mar currunt caelum non animum mutant”. In Italia ci sono delle persone povere come le troviamo in Africa. Ci sono posti belli e brutti come da noi. Anch’io ero illuso che l’Europa fosse l’Eldorado dove certi termini come la fame, la sete, l’aiuto non esistevano. Quando eravamo bambini, credevamo senza filtri a ciò che ci veniva insegnato a scuola. I libri occidentali descrivevano sempre l’Europa come il continente forte e imbattibile e modello. Eravamo convinti che la loro giustizia è perfetta. Invece non è vero, l’Europa che ho conosciuto è diametralmente l’opposto di come avevano cantato le sue lodi nei testi. L’Occidente di oggi è ferito, suscettibile e vulnerabile.
Samba, se sapessi quante famiglie qui dipendono dal reddito di cittadinanza, un sostegno del governo per permettere loro di mantenersi. Se sapessi quanti imprenditori italiani si sono suicidati non essendo in grado di pagare i loro debiti bancari.
Amico mio, non ho alcun dubbio del tuo desiderio di raggiungere l’Europa e non mi permetterò mai di giudicare o commentare le tue ragioni personali ma sarei complice se non ti raccontassi la realtà delle cose, poi tocca a te prendere le tue decisioni. Io, come tutti gli altri modu modu (migranti integrati in wolof), mi sento in colpa per i nostri ragazzi rimasti in mare. Sento il dovere di condividere le mie e le esperienze degli altri migranti con i nostri fratelli dall’altra parte. Il nostro ruolo è soprattutto fare in modo che comprendano che l’Europa non è come prima e l’Africa è il loro futuro e ha il loro futuro. Devono essere a conoscenza di tutte le prove che gli emigrati affrontano giorno per giorno per sopravvivere. Non dobbiamo vergognarci di parlare dei senzatetto che dormono davanti alle stazioni e fanno degli angoli di strada il loro bagno.
È in queste circostanze che ho incontrato Kombo, un ragazzo diciannovenne del Kenya. Non ricordo esattamente il giorno preciso ma era nel bel mezzo dell’inverno, a gennaio quando facevano 5 gradi. Fumavo l’ultima sigaretta mentre aspettavo il treno con un ritardo di quindici minuti, quando questo giovanotto che, sembrava zoppicare, si avvicinò. Non nascondo che mi spaventai ma mantenni la calma, la mia coscienza mi imponeva di ascoltarlo perché forse i due minuti che gli concedevo potevano significare qualcosa. E così è stato. Kombo, voleva un pezzo di pane perché non aveva mangiato tutta la giornata e per fortuna io avevo un mezzo panino nello zaino che avevo conservato per la sera. Glielo diedi e lui era così affamato che non ebbe nemmeno il tempo di togliere la carta che lo avvolgeva. Era felice di essere sazio e mi ringraziò, io gli fui grato per avermi insegnato che per essere utile non c’è bisogno di molto.
Alla fine siamo diventati buoni amici e ogni volta, dopo aver finito i miei impegni all’Università, ci sedevamo sui cornicioni della stazione di Napoli Centrale. Parlavamo di tutto e di niente, per ore e ore. Avevamo una connessione telepatica e le nostre conversazioni non seguivano alcuna regola. Passavamo da un argomento all’altro senza neanche portarlo a termine: dalla musica allo sport, dalla religione alla politica.
Una sera avemmo uno scambio molto acceso sul tema dell’immigrazione clandestina, aveva una posizione molto radicale rispetto alla mia. Era convinto della necessità degli Stati Uniti d’Africa. All’inizio facevo fatica a accettare la sua tesi poi ho cercato di confrontare le mie idee con le sue: così ho cominciato ad immaginare l’Africa del futuro con una visione comune, un territorio comune guidato da un unico governatore come ai bei tempi dell’impero mandingo del re Sunjata Keita. Ho continuato a navigare nell’oceano dei sogni che mi mostravano l’opposto di ciò che sta accadendo attualmente. Vedevo americani, francesi, italiani, arabi e persino cinesi bussare alle porte dell’Africa in ricerca di lavoro. Ne parlavamo a lungo e più ne discutevamo più avevo voglia di approfondire.
Purtroppo però, il tempo vola così veloce che quando suona la campanella non ci lascia nemmeno il tempo di salutare i nostri cari. Kombo è morto. Aveva solo 30 anni. Ha avuto un arresto cardiaco. Diceva si essere un morto vivente, di aver fallito e aspettava solamente il suo momento per andarsene. Spero che lassù, abbia trovato persone integre in grado di dargli un’altra possibilità.
Samba, le storie come quella di Kombo non fanno l’eccezione ma piuttosto la regola. Basta aprire gli occhi e vedrai che ci sono tanti altri Kombo in giro per l’Italia; certo con dei nomi diversi o nazionalità diverse. Anche se riesci a sopravvivere dopo un lungo viaggio, sappi che hai vinto la battaglia e non la guerra. La guerra è il confronto con persone ignoranti, persone razziste che incontri nella vita di ogni giorno. Screditeranno ogni tuo atto, ti disprezzeranno e ti sputeranno in faccia in certi casi. Ti guarderanno con occhi strani come se fossi sbarcato da un altro pianeta. Effettivamente per loro tu sei diverso da loro. In effetti loro non sono abituati a vedere una pelle come la tua, la tua pelle nera, la tua pelle di scura. In Italia la maggior parte degli immigrati Africani ha difficoltà ad imparare la lingua. Incontra delle difficoltà legate a questa lingua. Spesso per esprimere i loro desideri, loro sono obbligati a ricorrere ad un terzo individuo, sia un mediatore linguistico, un interprete o talvolta un’altra persona madre lingua.
I migranti, però non sono tabulae rasae. Hanno un piano migratorio ben stabilito e hanno anche delle competenze professionali, acquisite nei propri paesi di origine. Sono come oro prezioso nelle miniere e se venisse data loro la possibilità di servire l’Italia, lo farebbero con tutta la lealtà e la preparazione possibile. Soggiornerai in un territorio dove incontrerai tantissimi altri giovanotti neri come te, nati e cresciuti in Italia, anche se non si sentono per niente Italiani. Anzi loro non sono considerati italiani o ancora meno non hanno avuto la legittima opportunità di diventare quello che sono realmente cioè dei cittadini italiani.
Caro Samba, le mie esperienze e le storie che ti ho raccontato in questa lettera, non sono sciocchezze. Tu sei libero di credermi o di non credermi. Ciò che è certo è che ho riportato la realtà così com’è, senza aggiungere o diminuire un atomo di informazione.
Stammi bene amico mio!