Romagnoli. Una vita esemplare

Cento anni fa, il 9 marzo del 1924, ad Argenta nasce Luciano Romagnoli. Chi era e perché passerà alla storia come un dirigente indimenticabile?

Nel 1942, a soli 18 anni, Luciano Romagnoli, aderisce alla organizzazione clandestina della gioventù comunista per poi partecipare attivamente alla Resistenza, alla lotta armata e di classe contro i nazifascisti.

In quelle battaglie – ricorderà Lionello Bignami – Romagnoli ha dimostrato “la sua viva intelligenza, la sua capacità di dirigente. Esso partecipò all’elaborazione di un nuovo patto mezzadrile che, travolgendo l’iniquo contratto fascista, portasse i riparti al 60%, nel contempo, incitò i contadini a non consegnare il grano agli ammassi per sabotare rifornimenti nazisti. Organizzò l’azione di massa per «vuotare» i magazzini ed imporre la distribuzione dei viveri alle popolazioni. Fu animatore dello sciopero eroico delle mondine dell’estate 1944”.

“Fu, appunto, verso la fine di quell’anno che” – continua Bignami – “ebbi la fortuna di incontrare Luciano, il quale mi fu di decisivo aiuto a fare la scelta giusta della partecipazione attiva alla Resistenza. Un grato e preciso ricordo mi è rimasto di quell’incontro. Luciano macinava con la sua bicicletta chilometri su chilometri per costruire, sostenere e dirigere una fitta rete di basi partigiane e per organizzare le iniziative di massa. Portava una borsa piena di progetti di costruzioni idrauliche e stradali celando l’attività clandestina e sfuggendo alla spietata «caccia» fascista che temeva l’attività e l’organizzazione che aveva creato in mesi e mesi di paziente lavoro. Era sempre presente dove si sviluppava la lotta di massa. Ti era di grande aiuto nei momenti di incertezza e di difficoltà perché riusciva a comunicarti la sua certezza nella vittoria partigiana e nella causa dei lavoratori”.

Nel 1947 inizia la sua attività sindacale nella Confederterra della provincia di Bologna e nel gennaio 1948, a soli 24 anni, viene eletto segretario generale della appena costituita Federbraccianti nazionale.

Per dieci anni Luciano Romagnoli è stato il massimo dirigente delle grandi lotte combattute dai braccianti e salariati italiani per il lavoro e per il pane: “per spazzare via dalle campagne i residui del fascismo agrario, per conquistare il contratto di lavoro e migliori salari. Erano gli anni in cui gli attacchi ai privilegi portavano a scontri violentissimi, sanguinosi tra i lavoratori e l’apparato repressivo dello Stato poliziesco”.

Lotte memorabili in cui il proletariato agricolo e la appena nata – ma gloriosa – Federbraccianti si affermavano come la più grande forza rinnovatrice delle campagne.

Scriverà di lui Vittorio Foa:

“Romagnoli è stato in tutto e per tutto un uomo del suo tempo, storicamente condizionato, il suo insegnamento ha un valore permanente. La sua testimonianza, come è ovvio, non lascia indicazioni precise per il futuro, non lascia delle massime da applicare, non ci dice quello che dobbiamo fare. Essa risulta però in una attività organica e in un pensiero organico su cui pensare, per essere più intelligenti, più capaci di comprendere il mondo, più armati per cambiarlo”. […]

“L’uomo Romagnoli fu in tutto coerente col dirigente. Aveva un carattere impetuoso, vivace, severo, spesso aspro e tempestoso, sempre onesto coi compagni e con sé stesso. E sapeva ascoltare. Non chiedeva opinioni conformistiche di consenso, chiedeva sincerità e convinzione nelle idee del suo prossimo. Quante volte i compagni hanno iniziato con duri scontri una collaborazione, una stima e amicizia che non ha avuto più fine”. […]

Colpito da una grave malattia, si spegne giovanissimo a Roma la mattina del 19 febbraio del 1966.

“Egli – ricorda Foa – sembrava tacere a sé stesso la gravità del male perché voleva continuare a lottare. Lottava non per salvare una vita vegetativa, ma per salvare il suo lavoro, il suo impegno politico. Per questo ha saputo dominare il dolore fisico e la sua morte è stata alta come la sua vita. Pochi giorni prima della fine lottò duramente col suo corpo per poter essere presente all’11° Congresso del suo partito. Non vi riuscì, sofferse, ma soffocò la sofferenza per continuare a lottare. Solo nelle ultime ore rivelò la verità: «ho lottato per vivere ed ho perduto». L’aiuto che diede ai compagni era immenso. Andavano da lui non per confortarlo, ma per essere aiutati a capire il loro lavoro. Gli dicevano: noi vediamo gli alberi, tu puoi aiutarci a vedere la foresta. In realtà egli vedeva la foresta, cioè l’insieme, la sintesi dei problemi, ma continuava a vedere ogni particolare, ogni albero. Fu un aiuto di serenità, di profondità. Pareva un saggio che avesse dietro di sé 60 anni di esperienza, e invece moriva un giovane di 40 anni”.

Valeria Cappucci

(foto archivio storico Donatella Turtura)

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